Educare un ageista senza dire “ageista!”

Home / Blog / Edu / Educare un ageista senza dire “ageista!”16 Febbraio 2022Educare un ageista senza dire “ageista!”

Proseguendo il discorso

Come analizzato in un precedente articolo, la lotta contro le discriminazioni, quando condotta da attivisti passionari affetti da un panico morale che adombra le testimonianze delle vittime danneggiate, rischia di impantanarsi nell’aggressività e nel populismo, ovvero, in una comunicazione scadente fatta di accuse e forti espressioni di sfida (“razzista”, “sessista”, “ageista”) che non conducono ad altro che a moti di resistenza e di negazione da parte dell’imputato.

La minoranza danneggiata deve quindi avere un ruolo protagonista, e portare una “comunicazione esperienziale-narrativa” (Rumiati, 2021: p. 137) in prima persona.

Il contributo degli educatori

Oltre alle testimonianze dirette, un’iniziativa interessante può provenire dagli esperimenti di gruppo nelle scuole proposti da sociologi e professionisti dell’istruzione. Come osserva la gerontologa Leni Marshall, molti studenti si siedono ai banchi già “with a set of stereotypes about ageing firmly but unconsciously embedded” (Gullette, Ending Ageism, or How Not to Shoot Old People, Rutgers University Press 2017: p. 60). Di fronte a questa situazione, il sociologo Toni Calasanti ricorda la potente strategia comunicativa di porre domande (“gli atti comunicativi più efficaci nel pilotare i processi attentivi e cognitivi degli individui” come scritto in Rumiati, Introduzione alla psicologia della comunicazione, Bologna, il Mulino 2021: 142) e inizierebbe domandando agli studenti: “how we know when someone is old?”. Come racconta, le prime risposte probabilmente tirerebbero in causa i capelli bianchi o grigi, le rughe… ma poi ecco spuntare peculiarità come “slow drivers”, “unfashionable clothes”, di pari passo con le risatine generali, che culminano quando qualcuno risponde: “They smell funny”. Di qui in poi si scatenano i peggiorativi, l’ilarità, i commenti sulla “olfactory deviance”. Eppure, di fronte a questa carrellata di insulti, l’educatore non parte all’accusa, non scrive manifesti e nemmeno tenta di difendere retoricamente la minoranza discriminata cercando di contro-dimostrare che le persone anziane sono brave e intelligenti e amanti dell’igiene. Niente di tutto questo. Infatti, l’importante è “to introduce self-examination, data, ethics, and theory, and to applaud signs of ageism consciousness“.

Come si introduce tutto questo? Come far capire che qui non si tratta di ridere in gruppo ma di umiliare e degradare? A questo punto della discussione, Toni Calasanti mostra alla classe alcune forme di “hate speech” rivolte ai vecchi su Facebook (che non include l’età tra le categorie protette per le segnalazioni), e poi chiede: “Come rispondereste se qualcuno lo dicesse davanti a voi?”. Qualcuno non ha dubbi: “Riderei”. E se fosse abbastanza vecchio da sentirsi coinvolto? Riderebbe di nuovo.

Risate a parte, un’altra possibilità è che qualcuno neghi che quelle frasi abbiano davvero il potere di ferire. Anzi, potrebbe cercare di spiegarlo difendendo l’ilarità della frase, o appigliandosi al fatto che il rimanerne offesi è una scelta o la dimostrazione di avere poco senso umorismo, argomento quest’ultimo che, solitamente, emerge specialmente se a rimanerci male è una donna. A questo proposito, da un punto di vista di genere, pare che “a male dominant worldview constitutes an important element in the support for inequity between groups”. In particolare troppo testosterone porterebbe ad assumere un atteggiamento da “duro”, ovvero un “tough-minded approach to civil rights issues”, che considera le leggi contro il reato d’odio come qualcosa di pretestuoso, visto che spetterebbe ai discriminati  “to get over it on their own”. Ovviamente, non è questa la direzione per imparare qualcosa, visto che un simile approccio “automatically places the student in a position of determined disengagement from critical analysis“.

Per convincere il singolo irriducibile, va portato avanti tutto il gruppo di discussione, che nell’esperimento deve ritenersi in uno stato di coesione, al di là di tutto. D’altra parte, non bisogna nemmeno estinguere la tensione del discorso, ma cavalcarla e condurla ad una dimensione critica, prudente ma accogliente. Come ricorda Paolo Freire, a proposito dell’ottimale clima pedagogico, “Finding the ‘sweet spot’ where there is some discomfort but not too much, is key to learning”. Il senso di questa “dritta” potrebbe stare nel raccogliere tutte le battute e le giustificazioni e le posizioni “toughen up”, e fare in modo di far sentire gli irriducibili in tenue disagio con queste sparate, nel momento in cui il discorso generale vira e ragiona a proposito di rispetto, di precarietà del privilegio, di status sociale degradato dalle rappresentazioni collettive elaborate e perpetuate da una parentela di razzisti, sessisti, omofobi, ageisti, e così via.

Insomma, bisogna riuscire ad instillare il costante sospetto che ogni cosa che diciamo sia un pregiudizio e uno stereotipo, e di conseguenza la buona abitudine di farci domande e di fare domande; il pensiero che uno stereotipo, per quanto fondato, non è incontrovertibile e può danneggiare; e, perché no, che uno stereotipo può anche essere confermato dalla realtà ma resta sempre uno stereotipo irrispettoso. Niente di più rivoluzionario del “respect”, chiave del successo del Multicultural Connection Program, un altro esperimento a tema intergenerazionale condotto nel 2014 nelle scuole Israeliane, in cui bambini hanno insegnato agli anziani ad usare il computer e Internet, in cui gli anziani hanno imparato a rispettare i bambini nel ruolo di insegnanti, e a chiedergli chiarimenti. Come sostiene Tova Gamliel, il progetto ha promosso “intra-community altruism”, e ha incoraggiato “children and adults to adopt realistic attitudes about and under the influence of modernization”.

Per approfondire:

cover image credit: The Met  (Object: 547829 / Accession Number: 00.2.19)

Alessandro P. L. Redaelli



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