
Home / Blog / Work / 17 Dicembre 2020Il gender gap nel mondo del lavoro
La disparità di genere nel mondo del lavoro è uno degli argomenti più dibattuti degli ultimi anni. Tutte le analisi, anche le più recenti fatte sui numeri che mettono a confronto uomini e donne nel mondo del lavoro continuano a disegnare un quadro che vede le seconde ancora in una condizione di disparità a loro sfavore, sia in termini di stipendio che di posizione.
In Europa, il divario occupazionale di genere si è attestato all’11,7% nel 2019, con il 67,3% delle donne occupate rispetto al 79% degli uomini. Il divario retributivo, a parità di ore di lavoro, invece, si attesta al 14,1% ed è cambiato solo in minima parte nell’ultimo decennio. Significa il guadagno orario delle donne è minore rispetto agli uomini. Le donne, inoltre, hanno persino guadagnato complessivamente il 39,6% in meno rispetto agli uomini nel 2014. Uno dei motivi è il fatto che lavorino, in termini di ore, in media meno degli uomini: mentre solo l’8% degli uomini nel 2019 ha lavorato part-time, quasi un terzo delle donne (30,7%) non riesce ad avere un contratto full-time.
Secondo l’Istituto Europeo per l’uguaglianza di genere, i motivi per cui ciò accade sono molteplici:
· Segregazione settoriale: circa il 30% del divario retributivo di genere è spiegato dalla sovrarappresentazione delle donne in settori relativamente poco remunerativi, ma non per questo meno importanti per il funzionamento del sistema-Paese, come l’assistenza e l’istruzione. La percentuale di dipendenti maschi è molto alta (oltre l’80%) nei settori meglio retribuiti, come le scienze, la tecnologia, l’ingegneria.
· Equilibrio tra lavoro e vita privata: le donne, a causa di un retaggio storico difficile da scardinare si fanno carico di importanti compiti non retribuiti, quali i lavori di casa e la cura dei figli o familiari, in proporzione maggiore rispetto agli uomini. I lavoratori uomini dedicano in media 9 ore a settimana ad attività non retribuite come la cura dei figli o famigliari o i lavori di casa, mentre le lavoratrici dedicano a tali attività circa 22 ore, ossia circa 4 ore al giorno. Sul mercato del lavoro, tale differenza si riflette nel fatto che 1 donna su 3 riduce le ore di lavoro retribuite, orientandosi verso un impegno part-time, mentre solo 1 uomo su 10 fa lo stesso.
· La posizione nella gerarchia influenza il livello di retribuzione: meno del 10% degli amministratori delegati delle principali aziende sono donne. La posizione professionale con le maggiori differenze di retribuzione oraria nell’UE era quella dei dirigenti: salari inferiori del 23% per le donne rispetto agli uomini, elemento che indica una differenza anche nella capacità di contrattazione.
In generale, in alcuni casi, le donne guadagnano meno degli uomini per svolgere lavori di pari valore, nonostante il principio della parità di retribuzione per un lavoro di pari valore sia sancito nei trattati europei (articolo 157 TFUE) dal 1957.
LA SITUAZIONE ITALIANA
In Italia, la situazione è leggermente peggiore rispetto alla media. Il Global Gender Gap Report 2020 segnala che l’Italia è scesa ancora nella classifica mondiale dei Paesi che attuano la parità salariale (dal 70° al 76° posto). Una donna italiana, infatti, guadagna in media circa 17.900 euro l’anno rispetto ai 31.600 maschili a fronte di molte più ore di lavoro, perché viene pagata proporzionalmente meno e fa molto più lavoro non retribuito di un uomo (lavori domestici, cura dei figli, ecc.).
Da un’analisi condotta da JobPricing, nel 77% dei casi gli uomini guadagnano più delle donne in tutti i settori. Le donne italiane inoltre studiano di più (nel 2018 più della metà delle donne era laureata), ma studiano in discipline i cui sbocchi lavorativi generano retribuzioni più basse. Prova ne è che la differenza salariale è più alta tra i laureati che tra i non laureati. Inoltre, le ragazze sceglierebbero studi (umanistici piuttosto che STEM) che sarebbero meno in linea con le effettive esigenze del mercato del lavoro e questo finirebbe per penalizzarle. Va altresì specificato che la percentuale di donne che ha accesso maggiore all’istruzione universitaria è aumentata esponenzialmente solo di recente. Tale dato è essenziale per spiegare che in futuro potrebbe migliorare, di conseguenza, anche la posizione gerarchica delle stesse, visto che la loro carriera lavorativa deve ancora dispiegarsi completamente.
Il Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (art. 157) sancisce con chiarezza i termini della parità di genere in ambito lavorativo. Nonostante ciò, il Movimento Consumatori, di recente, ha rilanciato il tema analizzandolo sotto un’altra ottica, legata all’inquadramento della lavoratrice e alle condizioni pattuite in fase di contrattazione. Secondo il Movimento, infatti, le discrepanze in termini di retribuzione derivano dai compromessi che le donne fanno in sede di trattativa contrattuale, ove è prevista una retribuzione variabile, per permettersi di conciliare le esigenze lavorative con quelle familiari.
La minore capacità di negoziazione delle donne nei confronti del datore di lavoro, dovuta alle esigenze sopra indicate di orario con una retribuzione più bassa, contribuisce nella misura del 30% al gap salariale tra i due generi. Un’altra motivazione di discriminazione è data, sicuramente, dal fatto che le aziende ritengono che le donne, a prescindere dalla presenza di figli o meno nella loro vita, possano essere soggette a eventuali assenze future, anche per lunghi periodi, dal posto di lavoro, causa gravidanze e responsabilità di cura della loro famiglia, futura o di provenienza. Talvolta, in caso di parità contrattuale, possono esistere diversi trattamenti anche in termini di incentivi, come benefit, welfare e premi.
Un’analisi di questo tipo spiega la discriminazione come figlia di una cultura patriarcale, se non maschilista, radicata nel tempo. Tuttavia, va fatto anche un approfondimento ulteriore, per evitare di utilizzare tale cultura come unico capro espiatorio. Se è vero che la conseguenza di questo aspetto è che le donne con istruzione, qualifiche professionali e effettiva possibilità di concentrarsi sulla carriera siano poche, le aziende si sentono in qualche modo legittimate a proseguire, per motivi prettamente organizzativi, con un orientamento che le porta a scaricare la responsabilità proprio sulle donne, oberate da altri impegni, quelli familiari. Ciò conduce ad un inevitabile squilibrio di genere che non vogliono far dipendere, di conseguenza, da loro. Diventa facile giustificare le proprie scelte in questo modo, scaricando al di fuori dalle aziende la responsabilità di un gender gap che ha diversi colpevoli.
In realtà, la lenta crescita culturale italiana su questi temi si è unita con una scarsa capacità delle imprese di capire come l’uguaglianza di genere, oltre ad essere un tema delicato riconducibile a ragioni etiche, sia una questione di mere prestazioni. Manca infatti la consapevolezza che un’organizzazione più ricca di donne non inficia la crescita della stessa.
Negli anni, si sono moltiplicati studi e analisi che dimostrano come le aziende che garantiscono maggiore partecipazione femminile nel board e nella unit strategica abbiano performance migliori. Nel 2018, McKinsey ha messo in evidenza una correlazione positiva fra valorizzazione delle differenze di genere, profittabilità e creazione di valore: maggiore la presenza femminile ai più alti livelli aziendali maggiori sono le performance rispetto ai competitors. Le motivazioni di una tale correlazione sono state individuate nel fatto che, grazie all’unione di intenti tra uomini e donne, queste aziende sono più capaci di attrarre e trattenere i talenti, di migliorare la customer care e il loyalty management, di essere più innovative, di raggiungere alti livelli di soddisfazione del personale, di prendere decisioni efficaci, di garantire livelli di delega adeguati e di ridurre considerevolmente il rischio.
LA PROSPETTIVA
In chiave prospettica, se è vero che l’occupazione femminile è cresciuta in Italia negli ultimi tempi, il rapporto di Job Pricing sottolinea come la differenza salariale fra uomini e donne nel lavoro rischia di aumentare ancora a causa della digitalizzazione continua a cui il mercato è soggetto. Nel senso che la trasformazione digitale chiederà sempre più competenze specifiche e andrà a condizionare soprattutto occupazioni tradizionalmente appannaggio delle lavoratrici: se le donne sono meno presenti nelle facoltà universitarie che consegnano competenze STEM, che offrono più sbocchi in termini occupazionali, soprattutto alla luce di tale analisi, il gap è destinato ad aumentare. La lotta per la crescita e la sensibilizzazione sul tema del gender gap corre il rischio di subire una battuta d’arresto.
Il World Economic Forum dice chiaramente che la partecipazione politica e quella economica delle donne hanno nel nostro Paese livelli del tutto insufficienti: come riportato dal Corriere della Sera, il WEF indica che la disparità politica verrà colmata tra 95 anni, mentre quella retributiva tra 257 anni. Con la rivoluzione digitale, tra i 140 e i 160 milioni di donne in tutto il mondo, entro 10 anni, si ritroveranno a dover cambiare lavoro o a dover aggiornare le proprie competenze. Il cambiamento passa anche dalla politica: condizione imprescindibile, infatti, è che a livello mondiale metta siano concessi gli strumenti giusti per consentire alle donne di avere le stesse opportunità degli uomini, tramite misure di sostegno alla famiglia. In tal modo, le possibilità concrete di emergere nel mercato lavorativo aumenterebbero notevolmente. In caso contrario, la transizione digitale potrebbe diventare motivo di ulteriore accentuazione degli squilibri di genere, lasciando i lavori altamente specializzati e tecnici tutti in mano agli uomini e isolando ancora di più le donne in una condizione di svantaggio permanente.
