Home / Blog / Edu / 9 Febbraio 2022Guardare fuori dalle sbarre. La scuola in carcere
Un presente sbarrato
Tradizionalmente, le sbarre alle finestre sono tra i requisiti di sicurezza previsti per gli ambienti scolastici; per questo, non mancano esempi di scuole che al senso estetico del passante o dello studente potrebbero ricordare un carcere. Gli infissi con vetrate scorrevoli e dispositivi di bloccaggio dei nuovi edifici hanno interrotto questa somiglianza, mentre, parallelamente e al di là dell’architettura, l’inserimento di programmi educativi e formativi nelle carceri, dove le sbarre è giusto che restino al loro posto, l’hanno felicemente perpetuata. Scuola e prigione.
In ogni paese democratico, infatti, l’istituzione carceraria deve prevedere per il detenuto un periodo di reclusione in linea con la pena inflitta, in cui si deve lavorare sulla condotta in modo da allontanarlo dal crimine, per renderlo un cittadino re-inseribile nell’orizzonte della vita sociale. Quindi, non basta sorvegliare e punire, bisogna anche istruire, per responsabilizzare e ridare prospettive a chi già non ne aveva molte e rischia pure di non averne più.
Per non tornare dentro
Eppure, come ricorda il criminologo James Austin (“Limits of Prison Education,” Criminology and Public Policy 16, no. 2, May 2017: 563-570), alcuni studi hanno sostenuto che l’impatto dei programmi educativi sul detenuto abbasserebbero sì il rischio di un nuovo arresto, una nuova condanna, una nuova incarcerazione, ma senza grandi differenze rispetto a chi questi programmi educativi non li ha seguiti.
Quello che si può obiettare ad una simile lettura, forse, è che essa è unicamente focalizzata sul perimetro del recidivismo, per cui, a parità di numero di volte in carcere, potrebbe equiparare uno che in cella ha studiato, ottenuto la licenza media superiore o seguito un corso per diventare carpentiere, con un detenuto che magari ha solo fatto trazioni alla sbarra e un sacco di tatuaggi (per pescare dallo stereotipato immaginario filmico hollywoodiano). È chiaro che occorre quindi un altro approccio, che analizzi le possibilità di reintegrazione e le nuove prospettive (lavorative e culturali) che il periodo in carcere ha effettivamente fatto maturare.
A questo proposito, il Consiglio Europeo ha fissato gli obiettivi riguardanti l’educazione dei detenuti, in cui, oltre alla già citata opera di allontanamento dal crimine, spiccano pure l’impegno a limitare il danno psico-fisico fatto dalla prigione e il rimediare allo svantaggio educativo di chi, nella vita fuori dalle sbarre, non ha voluto o non ha avuto opportunità di ricevere un’istruzione. Ma innanzitutto “developing the whole person” è la responsabilità primaria fissata dall’Europa per educatori, psicologi e assistenti sociali del carcere. Quindi, senza trascurare l’importanza della preparazione professionale, è fondamentale non appiattire tutta un’identità su di essa. «In carcere puoi lavorare, studiare oppure far nulla» racconta un detenuto; tutto dipende dall’intima volontà di trovare «l’occasione di poter cambiare».
Per avere orizzonti là fuori
Va bene puntare alle prospettive di carriera e di paga, ai benefici pratici, alla professionalizzazione, all’abbassamento dei tassi di imprigionamento e di recidivismo, ma per sviluppare l’intera persona, è necessario guardare anche alla coltivazione del sapere e dello spirito, per avere curiosità nei confronti della vita, resilienza di fronte alle difficoltà post-rilascio, nuovi orizzonti.
Insomma, bisogna trasmettere anche quel che può rendere autonomi nella crescita civile e culturale, che aiuta a diventare migliori, a definirsi come identità personali e sociali. Infatti, privilegiare unicamente l’importanza della buona condotta, dell’allontanamento dal crimine e dell’avviamento professionale significa perdere di vista la portata universale della funzione educativa dell’istruzione, che non è volta unicamente ad assicurarsi la disciplina del singolo, o a modellarne l’atteggiamento per ritagliargli uno stipendio e un ruolo produttivo nella società.
Come diventare quindi cittadini responsabili e abbracciare il bene comune e una vita onesta? Scrive Nuccio Ordine: “Far coincidere l’essere umano esclusivamente con la sua professione sarebbe un errore gravissimo: in qualsiasi uomo c’è qualcosa di essenziale che va molto al di là del suo stesso mestiere. Senza questa dimensione pedagogica, completamente lontana da ogni forma di utilitarismo, sarebbe ben difficile, per il futuro, continuare a immaginare cittadini responsabili, capaci di abbandonare i propri egoismi per abbracciare il bene comune, per esprimere solidarietà, per difendere la tolleranza, per rivendicare la libertà, per proteggere la natura, per sostenere la giustizia” (Ordine, 2014: 117). Lo scrive nella seconda parte del saggio Utilità dell’inutile (Bompiani, Milano 2014), in cui parla non tanto di carceri, quanto degli “effetti disastrosi prodotti dalla logica del profitto nel campo dell’insegnamento, della ricerca e delle attività culturali in generale” (Ordine, 2014: 13), quindi l’ammonimento è valido per qualsiasi percorso formativo, in quegli edifici con sbarre inamovibili ma anche in quegli altri con le vetrate scorrevoli, di cui si è accennato all’inizio.
Limiti ed emergenze
Tornando alla situazione specifica dell’educazione in prigione, tra i più comuni problemi che la promozione delle varie attività formative può incontrare si contano: limitazioni del budget per l’educazione; tassi di alfabetizzazione bassi e quindi, di conseguenza, una grave e diffusa mancanza dei requisiti minimi; indisponibilità di spazi per aule, biblioteche e supporto amministrativo; scarso numero di educatori (stando all’ultimo monitoraggio di Antigone, associazione che fa da cane da guardia dei diritti del sistema penale, il rapporto in Italia sarebbe di un educatore ogni 91,8 detenuti), isolamento digitale dei detenuti (per cui, in nome di un comprensibile approccio anti-rischio, ai carcerati non è consentito usare Internet, cosa che però costituisce un problema per la reintegrazione nella vita di tutti i giorni) o la concorrenza di alcune attività lavorative interne al carcere che prevedono una piccola retribuzione.
Tutto ciò si somma ad altri tipi di criticità, come il proverbiale sovraffollamento (con oltre 53.000 detenuti a fronte di 47.000 posti disponibili), la piaga della tossicodipendenza che affligge un detenuto su quattro, celle non a norma (senza doccia o con schermature alle finestre che impediscono il passaggio di luce). In queste condizioni, è dura trovare motivazione per formarsi.
Quali fattori spingerebbero ad intraprendere il percorso educativo? I motivi possono essere svariati, e, a parte la bravura dei singoli professori (che come sempre costituisce il fattore determinante, più di ogni programma scolastico, attività o nuova teoria pedagogica) essi vanno dal dover sopravvivere ad una lunga pena, alla noia, al rendere orgogliosi i propri cari, alla volontà di usare il tempo utilmente e di prepararsi al meglio, già in carcere, al reinserimento sociale.
Pensare già oltre
Infatti, come spiegato sul sito di Punto e a capo (servizio realizzato in convenzione col Comune di Milano) «la presa in carico della persona avviene nell’ultima fase della carcerazione per la creazione sin dall’interno dell’Istituto Penitenziario di un progetto che curi il delicato passaggio tra il “dentro ed il fuori” ed il raggiungimento di un grado di autonomia personale sufficiente al reinserimento sociale e lavorativo della persona in dimissione».
Sotto i medesimi auspici, il carcere di Bollate promuove “IntegrazioNeN“: progetto di Corporate Social Responsibility nato dalla collaborazione tra NeN (azienda di fornitura luce e gas) e Bee4 (la prima impresa sociale del carcere di Bollate) in cui un gruppo di detenuti viene assegnato al “controllo qualità” nel servizio clienti, occupandosi di «data entry, validazione documentale, controllo e inserimento delle autoletture». È chiaro come questo tipo di attività aiuti a guardare oltre le sbarre, alla ricerca di attività virtuose e conoscenza.
In questo senso, è indicativo il nome di un importante programma educativo per carceri e comunità di recupero americane: Odyssey Beyond Bars, organizzato e promosso dalla University of Wisconsin-Madison. Ogni anno l’iniziativa offre lezioni e libri di testo di letteratura angloamericana, filosofia, storia dell’arte, storia americana. Qual è il lascito di questo programma? «Through exposure to great works of literature, philosophy, history, and art, Odyssey students gain six credits from UW-Madison, skills in critical thinking, a sense of empowerment, and a stronger voice».
Per approfondire:
- Antigone > Studia che ti passa – i numeri (desolanti) delle proposte scolastiche del sistema penitenziario del nostro paese
- Vita > Carcere, educatori dove siete?
- Taylor & Francis Online > Prison Break. Education of young adults in closed prisons—building a bridge from prison to civil society?
Cover image credit: The Met (Object: 315231/ Accession Number: 1987.394.169)
Alessandro P. L. Redaelli